CLAUDIA MENEGHIN
Nata a San Pietro di Feletto, tra le colline della Marca trevigiana, e residente a Revine Lago, nel Vittoriese, ha cominciato giovanissima a dipingere a olio, con una propensione per il tema del paesaggio.
Il suo rapporto con il mondo dell’arte si è sviluppato in modo inconsueto: laureata in giurisprudenza, infatti, con un’indagine sulla circolazione e la tutela delle opere d’arte nella Comunità Europea, si è iscritta poi a un corso universitario di direzione museale. Nel frattempo ha frequentato la Scuola Internazionale d’Illustrazione di Sàrmede, dove ha appreso le diverse tecniche per disegnare libri destinati all’infanzia, sotto la guida del maestro Štěpán Zavřel; esperienza cui è seguita la pubblicazione di storie e fiabe da lei illustrate.
La carriera professionale in ambito legale non l’ha ostacolata nel progredire sul versante della pittura e negli ultimi dieci anni si è cimentata anche con l’affresco, decorando edifici pubblici con il polacco Jósef Wilkoń, figura di riferimento internazionale. Nei suoi dipinti prevalgono ancora le interpretazioni paesaggistiche, nelle quali manifesta una rilevante capacità di cogliere i valori atmosferici nel variare della luce del giorno. Lo fa elaborando con elegante essenzialità coloristica sottili accordi tonali, il cui equilibrio fa pensare alla possibile influenza dei giochi di macchie e luce nei souvenir italiani di Camille Corot, e, più vicino a noi, di certe suggestioni cromatiche di Mario Sironi.
Di là di tali consonanze di tavolozza, Claudia Meneghin si esprime con uno stile che rivela una propria cifra sia nella tensione delle componenti formali, sia nella calibrata scansione sintattica dell’immagine. Le inquadrature, che prendono corpo da un abile uso della spatola, si presentano con un taglio spaziale variabile tra fughe prospettiche e primi piani: in entrambi i casi con ampio respiro d’impaginazione e con una vitalità costruttiva che li rende dinamici. Caratteri che risaltano in particolare nei dittici e nei trittici, concepiti come un unicum le cui parti, però, possono vivere ciascuna una vita a sé.
La sua mano traduce quel che l’occhio vede valicando le oziosità dei dettagli di un reale che tuttavia non perde riconoscibilità. Le sue non sono raffigurazioni di scorci ameni, nulla vi è di seduttivo: sono luoghi rivisitati con sintesi descrittive che hanno radici in un fatto mentale senza escludere un coinvolgimento emozionale. Per lo più brani urbani e suburbani, privi di presenze umane, animali o elementi vegetali, dove domina un silenzio che si percepisce paradossalmente assordante, perché queste visioni parlano indirettamente di fatti esistenziali. Area dismessa, per esempio, richiama lo stato d’abbandono e la desolazione conseguenti a insolute problematiche sociali e territoriali, cui l’artista sembra essere sensibile. Le sue riprese si artic0lano di solito sull’energico profilarsi di costruzioni alle quali fanno eco irreali luminosità nei cieli. Finissima la scelta dei colori, qui giocata per lo più sulle tante sfumature del giallo di Napoli e su tinte terrigne (talora in contrasto con chiarissimi blu), cui si accompagnano sapienti
sottolineature in seppia scuro e le preziosità di pigmenti dorati. Nelle vedute di natura interviene anche il verde ossido di cromo con tonalità e spessori che rendono vivide le suggestioni e palpabile l’aria, lasciando affiorare l’incantamento di panorami evocati poeticamente con felici esplosioni di luce.
Elsa Dezuanni